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Dell’arte di Francesco Paolo Michetti

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Dell’arte
di Francesco Paolo Michetti

Riesce assai difficile a un artista isolarsi. I suoi disdegni e le sue superbie non valgono. La vanità con mani abili e instancabili riallaccia intorno a lui quei legami ch’egli ha reciso. Ma un esempio di completo isolamento, forse unico nell’epoca nostra, ci è dato da Francesco Paolo Michetti, dal grande eremita di Francavilla; il quale fin dai primissimi anni fece suo il motto di Leonardo: Salvatico è quel che si salva.

Egli appartiene, in fatti, alla razza dei genii selvaggi, violenti, in discordia con la moltitudine, disdegnosi della vita comune. Spirito contemplativo e sagace, essendosi messo assai presto in conspetto della sua propria vita, fin dai primissimi anni egli comprese che qualunque allettamento esteriore era trascurabile al paragone dei tumulti e dei turbini entro di lui sollevati dalla forza creatrice. Come nel verso goethiano, questa forza gli riempiva tutta quanta l’anima ed affluiva alla punta delle sue dita incessantemente per riprodurre. E, come nel verso goethiano, dalle sue dita prorompeva «una forma sostanziale».

In vero, la lunga e laboriosa educazione di questo artista, descritta, sarebbe una delle pagine più ammirabili nella storia dell’intelligenza umana. Nessun pittore, né anticomoderno, si è con tanta abbondanza nutrito di studii, e nessuno con simpatia più vasta ha mescolata la sua anima alla grande anima naturale; e nessuno ha involto d’una più calda poesia le bellezze della terra. Per l’assiduità del contemplare, la sua vista a poco a poco si è andata mutando in visione profonda e continua. Per l’assiduità dell’operare, la sua mano a poco a poco si è andata mutando in uno strumento obedientissimo, atto a vincere qualunque ostacolo meccanico, atto a sciogliere qualunque material problema di forme. Per l’assiduità del meditare, la sua mente è andata a poco a poco acquistando una virtù che penetra e conosce l’anima delle cose, in quella guisa che una forte corrente elettrica rende luminosi i metalli e rivela la loro essenza dal colore della loro fiamma.

Nella sua educazione, egli ha comune con i puri artefici dell’antichità il libero campo della luce e dell’aria. Gli antichi artefici, i Greci, vedevano l’oggetto dell’arte loro sempre all’aperto, ciò è a dire circondato dall’universo. Essi potevano nelle palestre eleggere per modello della bellezza fisica la gioventù de’ lor grandi uomini, come potevano negli altri luoghi publici eleggere per modello della bellezza morale i loro filosofi e i loro padri, le spose, le figliuole e le madri de’ lor cittadini più illustri. Tutte le scene della natura patetica si svolgevano all’aperto, nelle nozze e nei funerali, nelle vittorie e nelle sconfitte, nei bandi e nei trionfi, in tutte le fortune della patria e della famiglia.

Essendo vissuto sempre nella campagna, Francesco Paolo Michetti, a simiglianza di quegli artefici, ha sempre avuto dinanzi agli occhi l’oggetto dell’arte sua nelle condizioni in cui egli voleva studiarlo; ha sempre veduto l’uomo all’aperto, nelle diverse attitudini e nelle diverse espressioni; ed ha quindi potuto osservare e riprodurre le diverse scene della natura patetica nei luoghi stessi ove si svolgevano; ha potuto sempre considerare i suoi modelli animati dal loro particolar sentimento in mezzo alla universale animazione delle circostanti cose.

Qui sta la sua superiorità, e quella degli antichi. A simiglianza delle opere antiche, le sue opere parrebbero destinate non ad essere esposte in un museo ma sì bene ad esser poste nel mezzo del mondo.

Nessuno più di lui ha osservato «quel che è»; nessuno ha fissato su le cose un occhio più limpido e più sicuro. Mai una più acuta curiosità del vero si unì a un più ardente amore della bellezza. Sapendo che per giungere alla bellezza è necessario indugiare con lunga pazienza sul vero, egli ha accumulato una incredibile dovizia di osservazioni esatte, ha analizzato lo spettacolo delle cose in tutti i suoi elementi per scoprirne i rapporti nascosti, con lo sforzo dell’analisi ha tentato di sorprendere il segreto della creazione. A furia di studiare i processi per i quali la natura costruisce e fa apparire i corpi, egli è giunto a produrre secondo quei processi medesimi le forme che corrispondono ai sentimenti dell’anima umana. Egli è giunto, in una parola, a continuare l’opera della natura: a esprimere con più energia e con più lucidità quel ch’ella esprime in confuso.

Ora, pur riallacciandosi per istinto nel metodo agli ammirabili precursori del Rinascimento, egli non ha seguìto l’esempio di alcun maestro, non ha accettato mai nulla da alcuno. Egli stesso ha aperta e profondata la sua via; e l’ha percorsa in virtù dei suoi soli sforzi, senza altro aiuto. Chi vede con i suoi occhi la sua mèta, pur se non la raggiunga, è superiore di potenza e di nobiltà a chi la raggiunga indicata da altrui.

Fin dal principio, affrancato dall’abitudine come dall’autorità, egli si mise al conspetto della natura direttamente. Il suo spirito vergine aveva tal virtù di giovinezza che ringiovaniva tutto quanto contemplava. Era in lui quel candore infantile di cui parla Lord Bacon, quel sovrano candore «senza il quale non s’entra nel regno della verità più agevolmente che nel regno dei cieli». Egli guardava sempre le cose come se le vedesse per la prima volta, semplice, candido, attonito. Per la prima volta ne scopriva la poesia nascosta e la manifestava senza turbarla. La sua simpatia discendeva agli esseri più umili. In ogni vita era per lui un mistero sacro che bisognava adorare. E nelle pitture di quel primo periodo egli studiava l’infanzia degli animali, la grazia dei vitelli e degli agnelli poppanti, la gracilità trepida dei pulcini a pena nati, e gli idillii dei pastori fanciulli tra gli arbusti carichi di gemme, e la timidezza delle tenere foglie, e la gentilezza delle corolle nuove. Fin da quel tempo egli sapeva imitare le apparenze così da dare all’occhio l’illusione della sostanza vivente; e sapeva trasformarle così da suscitare nell’anima il vapore del sogno. Fin da quel tempo egli sapeva mettere dentro le precise linee della forma l’infinito delle sensazioni confuse e oscure, le profondità della vita inconsapevole, l’anima che ignora sé stessa e contiene un mondo illimitato.

Ma come egli saliva l’erta della giovinezza, una specie di ebrietà panica lo invadeva. La fiamma dell’intelligenza irrompeva dal suo cervello in folgorazioni subitanee che abbagliavano e stupefacevano anche gli spiriti più audaci. Egli aveva il bisogno di esprimere la sua idea fuor d’ogni misura, con un sol getto veemente e rettilineo di cui egli medesimo non poteva calcolaremoderare la forza. Egli sentiva e rappresentava con una smisurata potenza il cieco e irresistibile turbine vitale che solleva la materia bruta e l’atteggia in forme sempre diverse alla luce del sole. Il suo occhio meraviglioso era atto a cogliere tutte le linee, tutte le colorazioni, tutte le apparenze della natura, le più durevoli e le più fuggitive; mentre la sua mano, libera e celere come nessun’altra mano d’artefice fu mai, era pronta a fermarle con un segno immutabile.

Appartiene quasi tutta a questo secondo periodo la vasta raccolta di studii custodita nel convento di Santa Maria Maggiore a Francavilla sul mare, una raccolta rimasta lungo tempo negletta ed esposta ai pericoli che corre la delicatezza del pastello, ma ora finalmente ordinata in custodie difese da cristalli: – tesoro senza pari, che rappresenta il più vivace e originale sforzo d’arte compiuto in questo secolo.

Quale ammirabile pagina sarebbe, ripeto, nella storia dell’intelligenza umana, la descrizione del natural processo per cui l’intemperante pittore lirico del Corpus Domini è giunto all’austerità ed alla semplicità di oggi!

Questo processo di scelta, iniziato coi Morticelli e proseguito nel Vóto e sostenuto senza intervalli in dieci anni di raccoglimento profondo, alfine si compie nella Figlia di Iorio. Francesco Paolo Michetti sta per conquistare l’ultima cima dell’Arte. Egli non è soltanto il più possente e il più felice organismo pittorico apparso in questo secolo; ma è ben anche la più acuta intelligenza che sia penetrata nel pieno spirito dell’Arte moderna.

Quanti sono scrittori curiosi dello stile conoscono, nell’esercizio della scrittura, quell’ineffabile tormento che io chiamerei «la ricerca dell’Assoluto», ciò è a dire la ricerca dell’espressione unica, immutabile, perfetta, immortale. A rendere esattamente un pensiero non vi può essere se non un’espressione sola, la seule qui convient, di cui parla il La Bruyère. E un pensiero esattamente espresso è un pensiero che già esisteva, dirò così, preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dallo scrittore, seguita ad esistere nella coscienza degli uomini. Più grande scrittore è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali. I quattro volumi dell’Epistolario di Gustavo Flaubert sono pieni dei gemiti e dei ruggiti che strappava il travaglio a quel pertinace schiavo sublime.

Una ricerca simile è proseguita da Francesco Paolo Michetti, nel disegno e nel colore.

Fra tutte le varie rappresentazioni pittoriche d’un qualunque oggetto reale, una sola è la vera, la propria, l’assoluta. Per certo, una cosa di natura non può esser rappresentata dall’arte se non in un sol modo. L’apparenza visibile di un oggetto si compone d’un mistero di linee innumerevoli, in mezzo a cui l’artista deve saper scoprire e determinare le linee fondamentali. Il disegnare non sta nel veder semplicemente «quel che è»; sta bensì nell’estrarre dalla realtà complessa delle cose quel che merita d’esser distinto, quel che il «carattere» a quella data forma, a quel dato aspetto del vero. Il disegnare sta, sopra tutto, nello scegliere. Cosicché non soltanto l’occhio, non la mano soltanto fa il buon disegnatore; ma sì bene l’intelligenza, poiché lo scegliere è una delle più alte operazioni dell’intelligenza.

L’arte è dunque la rappresentazione di ciò che un sottile analista chiama audacemente «il pensiero oscurato della natura». L’arte è la semplificazione delle linee. Il grande artista è un semplificatore.

Stabilito questo principio, evidentissimo come tutti i principii che nascon dall’essenza delle cose, rimane anche evidente che un’opera d’arte non può essere una cosa arbitraria. Un’opera d’arte, se è perfettamente concepita ed eseguita secondo un tal principio, entra nel mondo non come un’opera ma come un vivente organismo, al paro degli altri viventi organismi, e nella coscienza degli uomini seguita a vivere, eterno soggetto di studio come la Vita.

Ora, Francesco Paolo Michetti, perseguitore infaticabile di questo Ideale raro e superno, è giunto nell’arte sua al culmine ultimo, dove, scomparso ogni dubbio, tutte le varie attività educate e rinvigorite si equilibrano in un’armonia piena e oltrapossente. Egli ha lasciato tutto ciò che è eccessivo ed inutile. Avendo tutto compreso, egli si è pacificato. Il linguaggio di cui ora dispone è eguale alla grandezza del suo sogno interiore. La sua intelligenza è pari alla sua sensibilità. Egli può manifestare intera la sua anima e può veramente creare la vita.

Ma questo ultimo periododeterminato di recente dalla Figlia di Iorio, opera significativa quant’altra mai, nella quale tutti gli effetti convergono ad esprimere un carattere dominanteera già iniziato nel tempo in cui il grande pittore dipingeva i ritratti del Re Umberto e della Regina Margherita: opere rimaste quasi ignote, mal giudicate pur da’ non volgari, e tuttavia bastevoli a documentare luminosamente quanto sopra ho affermato: esser giunto omai questo artefice alla sua più alta e più semplice espressione.

Eugenio Fromentin, l’autore dei Maîtres d’autrefois, batte con molta insistenza su questo pensiero: – il valore intellettuale e morale d’un pittore si esprime assai più nella qualità e nella maniera della pittura che nei soggetti. Il soggetto è la cosa accessoria e secondaria. Il temperamento, l’indole dello spirito, la maggiore o minor dose d’intelligenza, di conscienza, di bontà, si manifestano più nella pittura in sé medesima che nella scelta dell’oggetto dipinto. Il Fromentin giunge fino ad affermare che si può distinguere se l’autore sia spiritualista o materialista, osservando un albero dipinto o un qualunque altro frammento isolato.

La teoria del critico pittore, se bene sembri paradossale, è giustissima; e noi possiamo anche, nel caso nostro, esperimentarla.

Quando il Michetti, già quasi interamente rinnovato, dipinse i ritratti del Re e della Regina d’Italia (vere pagine storiche, comparabili certo nella bellezza al Francesco I di Tiziano, al Giulio II di Raffaele, all’Almirante Pareja del Velasquez, al William Waram di Hans Holbein), parve ch’egli uscisse dal suo campo, anzi dal suo genere, come volgarmente si dice. Qualche critico stette dubbioso dinanzi a quella specie d’inaspettato intermezzo tra il Vóto e la Figlia di Iorio promessa. Senza fermarsi a quel re e a quella regina perduti nella triste e gaia moltitudine rustica, aspettò l’opera successiva per notare il principio d’un nuovo periodo.

Il nuovo periodo, invece, il più lucido, incominciava a punto da quei ritratti. Il soggetto non contava, era stato offerto dal caso, era secondario, era trascurabile; ma la qualità della pittura era nuova, senza esempio, altissima, supremamente pura.

Così negli studii di teste esposti in Roma nella primavera del 1893, con una sottilità e una profondità degne del Vinci, facendo l’analisi della fisionomia umana, il maestro cercava, trovava, sapeva estrarre il tipo; tra le linee apparenti sapeva vedere le linee nascoste, ciò che l’Amiel chiama «i gruppi invisibili». Alcune di quelle teste sono prodigi di penetrazione psicologica e di fattura. Non mai, io penso, il pennello era giunto nel tocco a un tal grado di forza e di evidenza; e non mai la tecnica era giunta a un tal grado di semplificazione. Ogni tocco ha qui un valore esatto, sicuro, assoluto, immutabile, necessario; ogni tocco infonde nella tela un soffio, un palpito di quella vita che il pittore ha, dirò così, bevuta per le pupille e completata nell’intelletto e quindi analizzata e ricomposta con una quasi creatrice operazione interiore. Pare qui, veramente, che l’artefice abbia potuto tracciare, senza mai spezzarla, quella ideal linea di vita e di bellezza che si svolge continua nel nostro intelletto ma che nessuna mano giunge a riprodurre senza interruzioni. Gli occhi, guardando, hanno l’illusione d’una continuità perfetta in cui il disegno e il colore si fondono generando quasi direi una musica visibile, infinitamente dilettosa. Tutto il fascino di questa pittura vien dal mistero. La sapienza del maestro vi è occulta. Non vi sono le tracce del pennello ma le apparenze della vita.

La Figlia di Iorio – la vastissima tela che nel passato autunno ottenne a Venezia, mirabile caso!, il suffragio degli eletti e quello del popolo – è, come più sopra io diceva, opera significativa quant’altra mai «per il maggiore sviluppo dato alla maggior potenza».

Così fiera è la sincerità di questa manifestazione che gli spiriti deboli o falsi ne han ricevuto un urto rude, quasi una percossa violenta. Mai natura d’uomo erasi rivelata per lo strumento dell’arte con una energia e con una semplicità più schiette e più dirette. Mai il colore aveva assunto un valor morale tanto chiaro e tanto alto. Ecco un’opera dinanzi a cui gli spiriti liberi si sono arrestati con una commozione indicibile, riconoscendo in lei il potere di quella suprema virtù ch’eglino cercano di estrarre dalla lor propria sostanza per polirla e farne lo splendore di lor vita.

Si matura intanto, sotto l’assiduo colore della meditazione, l’opera compendiaria nella quale il maestro vuol concentrare le energie essenziali del suo spirito, ora ch’egli finalmente le conosce tutte e n’è assoluto signore avendole portate con metodo verso il più alto grado d’intensità possibile. «manifestare concentrando»: – lo sforzo dell’Arte moderna è indicato in queste parole.

Sono circa duecento le tele già pronte; che hanno ricevuto il primo getto dell’idea, i toni e le linee fondamentali del quadro. In talune la ricerca tecnica è avanzata così che la superficie colorita già al mio occhio la sensazione della sostanza vivente. In altre il valor morale d’una sola linea e d’un solo tono è così forte che mi comunica intero il sentimento generatore escludendo gli elementi secondarii. In altre una sola indicazione, posta con una giustezza istantanea, sembra diffondersi per influenza su i tratti confusi e caricarli della sua propria forza suggestiva moltiplicata. In altre, pochi tocchi energici, per la loro espressione dinamica, riproducono con un miracolo di verità il movimento.

Qui è tutta la nostra razza, rappresentata nelle grandi linee della sua struttura fisica e della sua struttura morale: la vivace antica razza d’Abruzzi, così gagliarda, così pensosa, così canora intorno alla sua montagna materna d’onde scendono in perenni fiumi all’Adriatico la poesia delle leggende e l’acqua delle nevi. Qui sono le imagini eterne della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare. Qui passano lungo il mare pacifico nell’alba le vaste greggi condotte da pastori solenni e grandiosi come patriarchi, a simiglianza delle migrazioni primordiali. Qui si svolgono lungo i campi del lino fiorente, lungo i campi del frumento maturo, le pompe delle nozze, dei vóti e dei mortorii. Qui gli uomini accesi da una brama inestinguibile seguono a torme la femmina bella e possente che emana dal suo corpo una malìa sconosciuta; e si battono a colpi di falce tra le biche gigantesche, in un tramonto sanguigno al cui lume si fan più nere e più tragiche le loro ombre sul suolo raso. Qui turbe fanatiche, con i torsi nudi tatuati di simboli azzurri, con le braccia avvolte di colubri, o con canestre di grano sul capo, o con serti di rose e di vitalbe, vanno dietro i loro idoli gridando, stupefatti dalla monotonia delle loro grida. Qui la vergine dai capelli rossi che le cingono la fronte come un diadema di fuoco, chiusa nella sua profonda inconsapevolezza, conduce al pascolo di primavera la vacca gravida portando nel pugno una canna fronzuta da cui geme la linfa interrotta. Qui la vergine esangue, liberata da una fattura d’amore, dopo aver veduta la faccia della Morte, va a sciogliere un vóto in compagnia del suo parentado che porta il dono della cera; e il gracile fantasma bianco, in mezzo alle belle femmine feconde, in mezzo agli agricoltori adusti e nodosi, passa quasi aereo nella luce del meriggio, sotto l’azzurro inesorabile, lungo la messe alta bionda e infinita. Tutti i drammi e tutti gli idillii, tutte le imagini della gioia e del dolore di nostra gente sono qui come in un visibile poema. E in ognuno di questi esseri l’artefice lascia intravedere un’anima senza limiti, il mistero delle sensazioni confuse, la profondità della vita inconsapevole, le meraviglie del sogno involontario ereditato.

Così, oltre alla ricerca formale (spinta, come abbiam veduto, alla estrema intensità possibile), la ricerca psicologica è quella che mette il pittore del Vóto sopra tutti i pittori contemporanei, a inarrivabile altezza.

Certo, il Vinci lo chiamerebbe suo figliuolo.

Il quattrocentista meditativo che gli stessi contemporanei nomavano Prometeo ed Ermete, appassionato e infaticabile investigator di misteri, psicologo acutissimo a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana, immerso di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue e dei segreti più occulti; l’artefice che disegnando un ramo coperto di foglie scopriva una legge; lo scienziato che studiando l’acqua trovava nelle liquide ondulazioni il movimento delle dolci capigliature prolisse e la linea del sorriso femminile; quegli a me par veramente il divino padre intellettuale di chi nel Vóto ha dipinto la donna ammantata di nero e il tragico vecchio che bacia il santo, – di chi nella Figlia di Iorio ha espresso con sì terribile acume la diversità del riso e dell’ironia su i volti degli uomini giacenti, – di chi ha disegnato tutti i fiori della primavera cercando nelle lor condizioni d’esistenza il segreto della loro struttura, con l’esattezza d’un botanico e con la tenerezza d’un sognatore, – di chi, in fine, conciliando ciò che sembra inconciliabile, abbracciando e fondendo sempre con uno sforzo felice i due termini d’ogni antitesi, non ha messo l’Ideale fuori della realtà ma gli ha dato per fulcro le leggi della Vita.



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