Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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VII CANTANO I MORTI CON LA TERRA IN BOCCA E LE CARENE VALICANO I MONTI

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VII

CANTANO I MORTI CON LA TERRA IN BOCCA

E LE CARENE VALICANO I MONTI

Credo che oggi potrei dentro me chiamarmi il primogenito dei morti.

Da più settimane io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro; o mi levo sul gomito per riconoscerli e per iscrutarli e per rimirarli; o li tengo abbracciati, come mi tenevano abbracciato per terra i miei primi compagni, sotto il cono rovescio dello scoppio, quando non avevo ancor fatto in me il vóto forse orgoglioso di rimanere in piedi sempre e di non abbassare mai la fronte. Te ne ricordi, Asclepia Gandolfo? Ve ne ricordate, Franco Gagliani, Emilio Giampietro, e tu, mio Pierozzi, che avevi dato un’ala consanguinea alla guerra celeste? Il cuore non ci batteva se non quanto basta per testimoniare la fraternità pacata. E ciascuno di noi era lieto e fiero di vedere nel volto dell’altro il sorriso puro dell’intrepidezza senza ombra di millanteria. E ciascuno di noi era pronto a guidare con mano ferma e dolce nel trapasso il compagno. E, insieme, risollevandoci e scotendo da noi i tritumi e facendo crocchiare nel corpo lo scheletro scampato, sentivamo d’aver diviso l’atrocità dello scoppio con «una scriminatura di luce», come avrebbe detto quel duca che mostrò nella bolgia i due spiriti dentro ad un foco.

Talvolta, nelle notti della mia agonia immota, mi pareva udire nel foco taluno dei miei morti crollarsi mormorando. E io parlavo per lui; e mi facevo interprete de’ suoi sogni sotterranei. E i miei dottori si mettevano a piangere contro la proda del mio letto o sopra l’orlo della mia fossa.

Io non piangevo, né piangevano i miei compagni supini. Il suono dei singhiozzi non traeva a noi le lacrime. Ora sappiate che i morti non piangono.

Ma càntano. E chi ha udito quel canto, quegli sa che c’è un cielo sotto i nostri piedi come ce n’è uno sopra la nostra fronte.

Io so con quale voce i morti càntino in petti non ancor vuoti di respiro. E il ricordo mi batte in questa lividura del costato, mi sforza le costole e mi travaglia il fianco infermo, quasi cerchi rimescolarsi con me e con l’erba.

Dissanguata da troppi combattimenti, consunta in troppe trincee, stremata di forze, non restaurata dal troppo breve riposo, costretta a ritornare nella linea del fuoco, già sovversa dai sobillatori come quel battaglione della Quota 28 che aveva gridato di non voler più essere spinto al macello, l’eroica Brigata «Catanzaro» una notte, a Santa Maria la Longa, presso il mio campo d’aviazione, si ammutinò.

«O notte vergognosa, che nessuno ti conti tra i giorni dell’anno mio!» Era in me l’implorazione del dolore d’Italia, prima dell’ottobre di Caporetto.

Quella estate del 1917 lasciava cadere troppe foglie arsicce, come un autunno di perfidia precoce. Già nell’afa pareva passassero a quando a quando zaffate di pestilenza. Già, nelle casse d’abeto, con carname di bestie era rifatto il peso dei nostri morti squartati dal frodatore.

La sedizione fu doma con le bocche delle armi corazzate. Il fragore sinistro dei carri d’acciaio nella notte e nel mattino lacerava il cuore del Friuli carico di presagi. Una parola spaventevole correva coi mulinelli di polvere, arrossava la carrareccia, per la via battuta: «La decimazione! La decimazione!» L’imminenza del castigo incrudeliva l’arsura, simile a quell’empietà che arde nei libri dei Profeti e divora le vepri e s’accende negli alberi più folti e ne fiacca le vette.

O cipressi del cimitero di Santa Maria!

Erano sette, fuori di quel tristo muro grigio dove apparivano simili a teschi d’infanti i ciottoli confitti nella calcina. Il muro era contiguo a un campo di granturco che già cominciava a seccarsi e ad accartocciarsi per il saccone della morte. C’era, fra mezzo alla stipa afata, qualche fiore così lieve e così dolente che, per toccar l’anima, passava la pupilla appena appena.

Di schiena al muro grigio furono messi i fanti condannati alla fucilazione, tratti a sorte nel mucchio dei sediziosi. Ce n’erano della Campania e della Puglia, di Calabria e di Sicilia: quasi tutti di bassa statura, scarni, bruni, adusti come i mietitori delle belle messi ov’erano nati. Il resto dei corpi nei poveri panni grigi pareva confondersi con la calcina, quasi intridersi con la calcina come i ciottoli. E da quello scoloramento e agguagliamento dei corpi mi pareva l’umanità dei volti farsi più espressiva, quasi più avvicinarmisi, per non so qual rilievo terribile che quasi mi ferisse con gli spigoli dell’osso.

I fucilieri del drappello allineati attendevano il comando, tenendo gli occhi bassi, fisando i piedi degli infelici, fisando le grosse scarpe deformi che s’appigliavano al terreno come radici maestre.

Io traversavo il muro col mio penoso occhio di lince; e scoprivo i seppellitori anch’essi allineati dall’altra parte con le vanghe e con le zappe pronti a scavare la fossa vasta e profonda.

Non mi facevano male come gli sguardi dei condannati alla fossa. I morituri mi guardavano. I loro sguardi smarriti non più erravano ma si fermavano su me che dovevo esser pallido come se la vita mi avesse abbandonato prima di abbandonarli. Gli orecchi mi sibilavano come nell’inizio della vertigine, ma era il ronzio delle mosche immonde.

«Siete innocenti

Forse trasognavo. Forse la voce non passò la chiostra de’ miei denti. Ma perché allora il silenzio divenne più spaventoso, e tutte le facce umane apparvero più esangui? e perché l’afa del mattino d’estate s’approssimò e s’appesantì come se il cielo della Campania e il cielo della Puglia e il cielo di Calabria e il cielo di Sicilia precipitassero in quell’ardore fermo e bianco?

«Siete innocenti? Siete traditi dalla sorte della decimazione? Sì, vedo. La figura eroica del vostro reggimento è riscolpita nella vostra angoscia muta, nell’osso delle vostre facce che hanno il colore del vostro grano, di quel grano grosso che si chiama grano del miracolo, o contadini. Siete contadini. Vi conosco alle mani. Vi conosco al modo di tenere i piedi in terra. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti. La legione tebana, la sacra legione tebana, fu decimata due volte. Espiate voi la colpa? O espiate la Patria contaminata, la stessa vostra gloria contaminata? Ci fu una volta un re che non decimava i suoi secondo il costume romano ma faceva uccidere tutti quelli che nella statura non arrivassero all’elsa della sua grande spada. Di mezza statura voi siete, uomini di aratro, uomini di falce. Ma che importa? Tutti non dobbiamo oggi arrivare con l’animo all’elsa della spada d’Italia? Il Dio d’Italia vi riarma, e vi guarda

I fanti avevano discostato dal muro le schiene. Tenevano tuttora i piedi piantati nella zolla ma le ginocchia flesse come sul punto di entrare nelle impronte delle calcagna. E, con una passione che curvava anche me verso terra, vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi. Ecco che ora le canne degli organi erano contrapposte alle canne dei fucili? Il registro soprano di Doberdò era alzato?

Obbedii a non so qual moto infantile nel tendere la mano verso un cespo di quei labili fiori scempii che svenivano a piè della stipa. Nell’atto il mio sudore dal mio capo scoperto gocciolò sul seccume. Mi raddrizzai udendo sonare le armi nel drappello pronto a un cenno dell’ufficiale.

Ora chi cantava? Dal muro atroce sgorgava quel canto?

Al ricordo, il cuore mi trema, mi tremerà sempre. Saliva dal cuor della terra quel canto? Scendeva dall’ambascia dei cieli sovrapposti? Giungeva dall’imo della miseria umana? dal fondo delle generazioni? dalle lontananze dei secoli?

La preghiera muta nelle labbra dei condannati s’era fatta voce, s’era fatta coro, s’era fatta clamore dal profondo: lamentazione, invocazione, implorazione senza carne, pentimento senza figura, giuramento senza segno, come nelle latomie, come nelle solfatare, come in tutte le geenne della fatica umana, della pena umana. De profundis!

Non avevo mai udito un tale accento nell’uomo. Saliva nell’afa, vaniva nell’ardore. Era piano, era umile, era lento; e si spandeva nell’infinito, come se gli orizzonti lo bevessero, come se il cielo vacuo lo attirasse, come se solo intorno gli restasse il deserto del mondo.

Le armi brillarono. La scarica coprì il coro. Nel battito della mia palpebra non vidi cadere al suolo gli uomini, sparenti come il canto sparente, ma li vidi quasi in un flutto grigio confondersi col muro del cimitero, perdersi fra i sette cipressi.

Mi ricordo. M’allontanai vacillando. Errai pel mio campo col mio affanno che non si placava. La ruga tra ciglio e ciglio m’incideva il pensiero, mi mordeva il pensiero. Invano chiesi conforto alle mie ali di guerra: ristetti nel ricovero, esaminai gli apparecchi pronti, ne provai il tono e il ritmo; mi adoprai a rendere più severo il disegno della prossima impresa; mi sedetti all’ombra della mia macchina alata «simile all’ombra del legno di sacrifizio e di salvazione».

Il canto dei morituri era il canto dei morti. Separava l’afa, rallentava il vento, sospingeva la polvere, chiamava, attirava.

Tornai al luogo del supplizio. Prima cercai il muro. Cercai, sotto le foglie del formentone arsicce, quei fiori lievi. Li aveva già quasi uccisi il sole. Era un’ora dopo il mezzogiorno. Sotto le foglie vidi i berretti, gli elmetti, i brani delle cervella coperti dalle mosche a nuvoli, le righe del sangue già risecco tra gleba e gleba.

L’afa biancicava per tutta la solitudine. Le allodole invisibili empievano di melodia il disperato biancore. Ma nel muro grigio viveva l’eco della lamentazione lugubre; e di dal muro sonavano le zappe e le vanghe dei seppellitori.

Entrai nel cimitero. I becchini erano curvi all’opera e grondavano sudore. I cadaveri, tra la cappella senza palmette e il muro senza edera, stavano allineati, non supini ma proni. Stavano con la bocca in terra. Tenevano in terra la bocca che aveva cantato il canto lugubre. Pareva che restituissero al profondo il canto ch’era salito dal profondo.

Francesco d’Assisi avrebbe chiamato le allodole che s’abbassassero, che rapissero l’implorazione di tra l’erba e la sollevassero al cielo.

In ogni filo d’erba io soffrivo, e stempravo con la mia pietà ogni grumo; e vedevo le orecchie pallide, vedevo le mani cave, che parevano già velare di trasparenza l’atrocità; vedevo la mota e la polvere tra i chiodi delle scarpe logore; divinavo gli stinchi scarniti nella lana delle fasce consunte; divinavo i cranii sfragellati di sotto a certe frasche più vili che l’insegna dei tavernai.

Mi volsi intorno. Non c’era un fiore nel cimitero. Tutto era squallido e ignudo. Scorsi qualche ortica lungo il muro. Scorsi quivi una pianta d’un verde più carico e più lucido. M’appressai. Attonito riconobbi le foglie dell’acanto: l’acanto flessibile, l’acanto lene. Recisi i gambi col mio pugnale. Raccolsi il fascio. Tornai verso gli uomini morti che con le bocche prone affidavano al cuor della terra il sospiro interrotto dagli uomini vivi. E tolsi le frasche ignobili di sul frantume sanguinoso. Chino, lo ricopersi con l’acanto.

Ora uno di quei morti – quel giovinetto dal volto color di frumento appena soffuso di lanugine bruna, quell’esile martire che mi confessò con lo sguardo la sua innocenza – ecco che mi riappare disteso, col capo all’ingiù, come presso la grande fossa di Santa Maria. Ha il capo nel fogliame del mio acanto, ha la bocca di contro alla radice. Soffia nella terra la sua implorazione estatica; e io vedo la sua schiena commossa dal suo respiro, la sento vivere come il petto del mutilato che alza i moncherini al cielo non potendo più alzare e congiungere le mani nella preghiera e nella pietà.

Oggi io sono il primogenito dei morti.

Voi dite che io sono superstite in carne e ossa, così mezzo sepolto, con tutto questo lato estinto?

Ma quanto tempo io son rimasto coricato a fianco dei morti! Ma quante notti ho io vegliato nel mio cimitero di Ronchi, e in quello di Cosàla! Ma quanto ho io errato da Aquileia a Redipuglia, dal Vallone del Sangue alla Valle di Fiemme, dal Col di Lana al Ponte dell’Ancona!

Non fu così quando ero accecato. Allora si serravano contro di me quelli che erano stati più vicini al mio cuore, quelli che con me avevano ricevuto in viso dalla battaglia la stessa manata di bragia. Veniva allora il marinaio che nel sommergibile nella torpediniera nel motoscafo armato era rimasto con la sua spalla contro la mia spalla, col suo gomito contro il mio gomito. Allora veniva l’aviatore che nella carlinga volante aveva cento volte attraverso gli schermi commisto il suo coraggio al mio coraggio, la sua muta gioia alla mia muta gioia. Allora veniva il compagno noto, il compagno consueto, per cui l’eroismo e la morte avevan convertito il legame dell’attimo in suggello d’eternità.

Ma questa volta io mi sono confuso con le miriadi, mi sono trasfuso nella moltitudine. Sono stato sollevato dalle loro braccia, portato dalle loro braccia, come quando nelle vie e nelle piazze della città la folla delirava e le campane sonavano a stormo. Ho veduto riaprirsi i loro occhi, nel silenzio di sotterra più meravigliosi che i fiori viventi negli abissi marini. Ho veduto nei loro occhi illuminarsi l’avvenire come la natività di un grande pensiero inespresso.

Erano belli. Quel piccolo fante caduto su la Marmolada, con le sue scarpe chiodate, con le sue fasce intorno alle gambe, col suo pastrano, col suo cappuccio, coi suoi guanti lanosi, con tutto il freddo della montagna nelle sue ossa composte, con tutto quel gelo che gli conservava sul teschio una cartilagine quasi sana, non aveva il cuore palpitante? Ignoto era, senza casato come quello del mausoleo, ma aveva il suo dolce nome di battesimo scritto nella lettera non spedita, scritto di sua mano nell’ultima lettera alla sua sposa promessa. Era bello il suo sorriso quando io gli dicevo la sua donna di fede essere omai la Patria futura e quando mi offerivo di recarle il messaggio d’amore.

Oggi reco il messaggio di tutti. E il mio amore basta, per l’amore dei vivi straniato o falsato, basta solo a togliere dalle loro ossa anche il gelo dell’alpe.

Invisibili a quei vivi, sono visibili a me. Senza voce per quei vivi, hanno una voce per me. Hanno per me la salutazione del mattino e la salutazione della sera, come io ho per loro la salutazione della vigilia costante. E tutto quel che di me non può perire, a essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine.

Penso alla madre di Natale Palli, alla madre del mio dolce e invitto compagno, selvaggia e sublime quando s’aggirava intorno alla cassa d’abeto e tentava di scoperchiarla con le sue unghie.

Anch’io, anch’io voglio tentar di distruggere la separazione, voglio tentar di abolire la distanza ingiusta. Voglio distruggere le chiostre di tutti i cimiteri gloriosi e agguagliare alle case dei vivi le fosse dei morti. Voglio delle fosse ignote far le vie certe della Patria. Voglio dalle fosse ignote trarre la mirra delle volontà eroiche, la mirra delle resurrezioni eroiche, quella stessa forse ond’erano intrise a miracolo le bende di Lazaro, quella incorruttibilelacrimata e lacrimante – che basti a sanare i quattro vènti d’Italia dal lezzo di tutti i contagi.

Ne mirravano le mie medicine i visitatori notturni, i vegliatori notturni. E n’ero ebro. E forse ne sono ebro ancóra. E forse mi sarà dato, non con la parola ma con l’esempio, mi sarà dato inebriarne i miei fratelli d’Italia che dalla bassezza cotidiana salgano a una sacra demenza.

Il giorno declina; ma il cielo è raggiante come il volto dell’amore quando l’amore è amato. I monti cominciano a colorarsi come se da ogni lor fenditura vaporasse il preziosissimo sangue. Una spiritualità quasi modulata, come la melodia infusa alla terra da quella bocca prona sotto l’ombra dell’acanto, annobilisce tutti i lineamenti del «paese sincero». E sembra che dal sasso di Manerba l’effigie di Dante esali al vespro la rivelazione di Beatrice nel secondo cielo.

Io mi spicco dal suolo. Io sprigiono la mia ala. Io sento tra le mie penne i fili d’erba divelti. Mi solleva l’ansia del «folle volo».

Io sono oggi il primogenito alato dei morti; e tutti i morti sono alati, tutti gli eroi sono alati.

Dante non aveva già eretta nel suo regno la figura dell’uomo liberato pel «folle volo»? Come a Ulisse, a lui la vita era conoscenza e la conoscenza era vita. «Convien ch’uom voli» è una parola dantesca.

Ma in quanti luoghi delle tre Cantiche, dalla roteante discesa di Gerione giù per la stagliata rocca sino alla plenitudine volante dell’Empireo, sento io che in lui ondeggia quasi una reminiscenza confusa d’un istinto primitivo, una reminiscenza che si muta in aspirazione radiosa; perché, come la terza palpebra, come l’osso quadrato che collega la mandibola al cranio è pur nell’aquila l’indizio della sua origine di rettile, così sembra che l’inquietudine d’un ricordo dall’òmero inerme turbi l’anima dedàlea dell’uomo.

L’òmero mi spasima. Percussus elevor. Tutti i martiri dell’ala sorgono, s’avanzano, intorno a me s’accalcano, si stringono a me.

Questa sembra una specie d’uomini nutrita dall’Italia in disparte, una specie d’uomini taciturna e rude ch’ella esprime dalla sua gleba più ferace a simiglianza della vite e dell’ulivo magri e torti, quasi in isforzo di dolore onde poi nasce il grappolo dell’ebrezza e la bacca pallàdia «ch’è cibo e luce».

Volo attraverso gli anni; volo attraverso i luoghi e i fati.

I luoghi in Italia sono gli aspetti dei fati.

Laggiù, laggiù, presso la conca solitaria del lago laziale su cui si protendono ombre di ruderi e di memorie egualmente cupe, dove Anguillara è folta come un gregge che musa e Trevignano su la rupe basaltica drizza a disfida di nuvoli e di secoli la rocca orsina e Bracciano occupa il cielo con l’enorme pentagono turrito, mole di magnanimità e di ferocia, mentre più lungi la millenaria tristezza del pastore abita la capanna conica simile alla nera urna sepolcrale delle stirpi nate prima che Romolo versasse nel solco sacro il sangue fraterno; laggiù, dove la vita sembra esausta e immobile su la riva stessa del Tempo, gli uomini nuovi meditarono disegnarono costrussero la novità estrema: la prima nave aerea d’Italia. La costrussero di divinazione e di pazienza, di scienza e di ardore. Tacquero e operarono. Il portentoso Mancino dalla scrittura ermetica aveva loro appreso la gioia austera del segreto. Ebbero per parola d’ordine la parola delle stupende rivincite: «S’arma e non parla.» Un giorno, d’improvviso, condussero la nave nel cielo di Roma; segnarono e consacrarono nell’azzurro una cerchia invisibile. dov’eran dileguati gli avvoltoi fatali dallo sguardo del primo Re, essi passarono; segnarono essi un’Urbe aerea per la natività futura, per la trasfigurazione a venire. Sul battito di tutti i cuori, tutte le fronti dovettero alzarsi.

E un altro giorno condussero la nave più lontano, solcarono un cielo non meno santo, il cielo vaporato dai più vetusti miti italici; rifecero a ritroso nell’aria il viaggio ch’Enea seguì per la costa tirrena, e videro sotto il lungo volo vanire Laurento e il Monte di Circe e Gaeta e le foci del Volturno, alle cui acque pur si mescola il novissimo mito garibaldino. E alfine si librarono sul Golfo, salutarono i vascelli di un’altra nazione latina ancorati innanzi alla città raggiante; si volsero per la via del ritorno, risolcarono il firmamento dell’Eneide, l’epico etere vergiliano, riapparvero incolumi su Roma, ritraversarono il Tevere; alla divinità del fiume, all’ombra vegnente della Magna Madre, diedero il sangue della vittima umana che cadde senza grido, percossa dove un tempo il sacrificatore dava il colpo rituale all’offerta vivente.

O prodigio, dove tutto fu prodigio! Quel sangue giovenile segnò il luogo dove oggi l’eroe della quarta Roma veglia nel sepolcro rischiarato dalla lampada che, or è nove secoli, ardeva nel Palatino.

Certo, in Italia, in Italia bella, i luoghi sono gli aspetti eloquenti dei fati.

Gli eroi risuscitano e le visioni ritornano.

Se la prima nave aerea navigò il cielo di Roma, la prima ala d’uomo si levò da quella città subalpina nel cui vigore civico sembra idealmente perpetuarsi il Tetràgono romano che disegnava la sua primiera cerchia augustèa.

Rivedo il campo della Venarìa. Mi riappare uno dei più vasti e solenni spettacoli dell’Italia boreale, con la massa rossa e bianca del castello sabaudo, con i boschi della Mandria irti che làcerano l’aria cinerea, con le Prealpi plumbee accosciate nella caligine, con la piramide del Monviso che ha l’ardimento fantastico di una nuvola, con l’esercito dei nevosi Giganti che veglia sul confine, enormità di sogno nel cielo fumido, silenzio che s’arma.

Rivedo il piccolo uomo di nervi e d’ossa, affine alla vite e all’ulivo, come attorcigliato in sé stesso dalla consuetudine del calcolo difficile, con la bocca un poco irosa nascosta dalla piega dei baffi tra il mento barbuto e il naso ricurvo, con qualcosa d’amaro e di crudo rimastogli delle lunghe lotte oscure e delle patite ingiustizie. Vedo. È presso la sua macchina leggera ch’egli ha costruita pezzo per pezzo, afforzata chiodo per chiodo, nodo per nodo, giuntura per giuntura. È anche la sua compagna semplice e ammirabile, simile a un’operaia modesta, che le donne d’Italia debbono lodare per aver cucito i ferzi della prima ala italiana levatasi a volo, per aver tesa su l’armatura la tela con mano maestra. E nel centro della macchina, coi piedi presso i pedali, coi pugni alle leve, vedo il figliuolo, veramente una specie di giovine cicogna dal becco tronco e senza gozzo.

Una trinità familiare, una trinità italiana, vissuta per anni nel medesimo sogno, nel medesimo segreto, nel medesimo sforzo, nella medesima speranza! Il padre, la madre, il figliuolo; e il congegno alato, la creatura di tutt’e tre.

E ora vedo il piccolo uomo contrarsi su la terra molliccia come per spingere con la forza del suo spirito invitto il congegno vacillante.

Breve e basso il primo volo. Il fumo azzurrigno rimane a lungo sul terreno come coatto. Più lungo e più alto il secondo, con facile partenza, con equilibrio agevole, con la grazia di un nibbio novizio che s’ardisca alla prima caccia. Ma il terzo partitosi dal fondo del campo, quasi dall’ombra delle Alpi, si prolunga con così balda sicurezza verso il Castello che par sia per sorpassare le rosse terrazze coronate di balaustri.

Come il cuore mi balza! Vedo i soldati rozzi, eguali ai miei fanti del Carso, eguali ai miei meccanici della Comina, eguali a questi morti in piedisemplici figli della gleba, che forse prima di manovrare il fusto del cannone hanno guidato l’aratro –, li vedo seguire coi moti istintivi del corpo il volo che nella sua novità pare infinito. Li odo gridare. Credono essi con un grido di meraviglia di giubilo e di profezia accompagnar l’ala portentosa fino alla città lontana, spingerla sino oltre Po!

Quel grido della vergine forza, quel grido di trasfigurazione umana e di ascensione umana, non riecheggia a miracolo da monte a monte, inarcato come una iride annunziatrice?

Ora mi sembra di intravedere un grande fantasma che sorga dall’Adige e si protenda verso i laghi.

O mia Verona, tante volte da me sorvolata col mio aereo stuolo!

Sempre, nel rombo di guerra, chinandomi dalla prua sottile, più e più l’amavo. E, come più l’amavo, più fresca m’appariva quella tavola del suo vecchio Stefano da Zevio ove in una innumerevole fioritura di roseti e verdura d’erbe novelle passa un sì gran fremito di giovani ali.

E ogni volta il mio coraggio inclinandosi coglieva il fiore dello spirito, che più m’era vivace come più grande m’era il pericolo innanzi.

E, se il più vivido fior dello spirito sorge e cùlmina dalla più profonda adunazione di forze ideali, dove queste forze diverse e concordi, perpetuate in tradizioni, eternate in monumenti, sono più folte e più vaste?

O mia Verona!

E dove, in tanta confluenza di sangui e successione e sovrapposizione di strutture, più fieramente resiste si afferma trionfa il natio vigore italico?

O mia Verona!

La Città dei poeti degli imperatori dei consoli dei tiranni, ferrea chiave dell’Italia boreale, nodo di antiche vie solenni, dove la potenza romana è radice del gran tronco civico e di continuo manda per ogni ramo il suo succo e si manifesta d’età in età, dalla càvea del Teatro, dalla porta gèmina, dalla porta dei Leoni sino al sommo del Rinascimento, nelle robuste ossature di quel Sanmicheli che apre le sue finestre alla luce in forma d’archi trionfali;

la Città che l’émpito del libero Comune e il fervore della Fede congiunse a erigere il miracolo della sua Basilica custodia della tazza di porfido immobile e del Carroccio pronto alle sortite;

la Città che solleva nel suo cielo tra le cuspidi gotiche le statue dei suoi Magnifici su cavalli a cui i lembi delle gualdrappe son come ali chiuse;

quella che dalla purità giottesca dell’Altichiero e dell’Avanzo esprime la superba abondanza del Caliari:

che riassume nel più espressivo dei suoi artefici, nell’incomparabile Pisanello, tutte le virtù dello Stile:

che inaspra nelle bugne dei basamenti e dei pilastri la sua rudezza guerriera:

che melodiosamente sorride nella serenità della sua Loggia pe’ cui quattro e quattro archivolti s’affacciano le Muse tranne una che forse piange nella casa di Giulietta;

Verona, per sempre alzata nel culto di tutti gli Italiani dalla sacra tristezza di Dante, mi manda in questo crepuscolo estatico la visione che le affida la decima Musa.

Euplete Eurètria Energèia!

Sempre il cuore dentro mi romba quando penso al lamento funebre che gli eroi dànai udirono alternare intorno al rogo di Achille.

Giaceva Achille sul rogo, immemore dei lunghi alalà gettati dal suo carro di guerra; e il rogo ardeva su la spiaggia, alto e solo.

E scoppiò sul mare un fragore come di tuono; e le onde si enfiavano, mugghiavano a piè della catasta.

E già stringevano i precordii degli eroi dànai pietà e terrore; e già essi guatavano se giungesse la madre con le sorelle marine per piangere il bellissimo figlio «destinato a vivere tristo e a morir giovane».

Invisibile era la madre immortale, e tacito era il suo pianto.

Allora, di sopra il tumulto del mare, di sopra gli schianti delle navi, di sopra i sibili dei rudenti, i Dànai udirono tutte le nove Muse cantare al chiaror del rogo il lamento fùnebre.

Erano tutte le nove Muse. Mancava la decima.

Sul sepolcro che io e i miei compagni d’armi e di sacrifizio costruiremo a mia madre, sul fastigio aereo della cavità sotterranea dove anch’io riposerò nella medesima arca, si leveranno in cerchio le nove Muse titaniche scolpite nella immobile grandezza del loro compianto simili ad architetture di dolore. E mancherà la decima.

Odimi, Eurètria, Energèia.

Toccarti i ginocchi non oso.

Chiederti non oso che m’abbi

per l’aedo tuo primo

ma sol per il tuo messaggero.

Io sarò colui che t’annunzia.

Non canta la decima Musa, ma ricorda, ma incide sul clipeo della Vittoria di Brescia.

Correva la quarta dècade del Quattrocento. Brescia era stretta d’assedio. Affamata, appestata, di continuo travagliata dal nemico, non cedette. Attese. Vettovaglia non le poteva giungere se non dal lago, da questo lago. Non vi avea naviglio Venezia, ma ve n’avea il nemico vigile. Il Po e il Mincio sbarrava il signore di Mantova. Ogni disegno era disperato.

Non disperò la stirpe antica della mia gente di Càttaro e di Bùccari.

Nicolao Sòrbolo, com’ebbe esplorato il paese e studiato i passi, affermò bastargli l’animo di condurre fin nel lago un’armata navale se gli fosser concessi gli strumenti di tanta arditezza.

Fu confidata all’uomo un’armata di due galere grosse, di sei minori, e d’altre più che trenta galeotte piccole.

Fu fatta risalire per l’Adige fin presso al borgo di San Marco; e quindi per terra fu tratta con gran numero di buoi fino a Mori; e poi fu rimessa in acqua a Loppio; e da Loppio fu spinta per un altro durissimo tratto di terra fino a Nago.

Nel cimitero di Nago non sono già tutti in piedi i miei morti?

L’armata giaceva in secco a piè del Baldo. Le navi senz’ali, le navi della salute, coi marinai e coi guastatori e con le bestie e con la volontà fraterna e con la volontà eroica, stavano sotto il monte, stavano di contro al monte.

Superare il monte era necessario, come oggi è all’Italia necessario superare l’impedimento più aspro del monte.

Non sono tutti in piedi nel cimitero di Nago i miei morti?

Il genio vinse, l’ardire vinse, la pertinacia vinse, l’amore vinse. La magnanimità della stirpe lampeggiò e sfolgorò.

Con funi e con argani e con improvvise invenzioni di ordegni e congegni, le navi dalla vetta del Baldo calarono fino a Tòrbole; presero acqua a Tòrbole; furono apprestate, furono ordinate; ebbero per capitano Pietro Zeno; ebbero per cómpito il soccorso di Brescia in distretta.

La fede superò la montagna; e l’uomo superò sé stesso e l’evento.

O morti, o risorti di Nago, o risuscitati dell’Altissimo, o eroi di tutta l’alpe, di tutte le cime, di tutti i calvarii, perché tanto mi rifiammeggia il mio Baldo?

Chiedete voi a voi stessi il miracolo?

Spingete voi le carene a rivalicare il monte? E le spingete col pugno, e le spingete con la spalla, e le spingete con la fronte e con la cervice, e con tutta la vostra lena silenziosa? O voi siete ali alle carene, e salite cantando come quando il primo di voi piantava i dischi bianchi sul più truce Gòlgota del Carso e la vetta non era se non un sentimento sublime nel petto di chi la voleva raggiungere e lo splendore del sangue e lo splendore dell’anima parevano fare della più umile creatura mortale l’origine della luce immortale?

Ma, o miei fratelli, o povero cristo che t’affatichi a digrossarti, o piccolo fante che con la bocca prona confidi il tuo dolore alla terra, uditemi. Ho un’altra visione. Tra l’acanto e il cipresso, tra il lauro e il rosaio, dall’alto mi viene una nuova visione, mentre le carene alate s’involano verso la conquista della Patria futura.

In continuo travaglio erano pel lago le galee di Pietro Zeno; e troppo era difficile dal lago soccorrere Brescia, ché il Piccinino imperversava col suo naviglio da Peschiera.

L’animo superò l’evento. L’uomo superò sé stesso. L’amore domò il luogo e l’avversario.

Pietro Zeno caricò a schiena d’uomini il frumento. Ingannò le vigilanze, deluse gli agguati, vinse tutte le asprezze. , per la via del Ponale, gli uomini arrancarono, ansarono, portarono il soccorso alla fame.

Non vedete la lunga fila penosa? Non la vedete giungere alle porte? Non udite ripercossa dai secoli la voce fraterna di ieri? non la udite sul lago ripercossa dal golfo? non la udite da capitano a capitano?

«Aiutate a scaricare i sacchi.

Aiutate a nettare i granai.

Aiutate a ordinare le mulina.

Aiutare a murare i forni.

Oggi è la Moltiplicazione del pane, come ieri fu la Purificazione dell’aria.

Con cupo dolore ci comunicammo ieri nel sangue. Con maschia serenità ci comunichiamo oggi nel pane che l’Iddio nostro ci manda.

La città di vita ha i suoi misteri divini, e i doni della Grazia santificante.

Prima col sacrifizio sanguinoso della croce e poi col sacrifizio incruento dell’altare si compie la perfezione della vittima.

C’è qui oggi una luce che ne discopre ai fedeli la figura recondita.

Se i bronzi non squillano, se le rondini non stridono, se gli alalà non scoppiano, che importa? Questo giorno di silenzio è profondo di bellezza, più che i giorni del grande clamore.

Carica del frumento di Dio, la vasta nave tace nel porto taciturno.

Il dolore è veggente e vigile. Ha veduto la fine delle impurità; e guarda l’orizzonte profetico dove un’altra nave deve apparire: quella che già apparse alla foce del Tevere colma di destino. Aut intrare aut perire.

Apparirà, entrerà, compagni, prima che il nostro pane sia consumato.

Il nostro Iddio vivo ci ha mandato questo carico. Il nostro Iddio vivo ci manderà l’altro carico.

Gettiamo per sempre nell’immondezzaio il tozzo verminoso.

E comunichiamoci ogni giorno con tutti i poveri d’Italia, con tutti gli uomini di pena e di pazienza, con tutti i cuori candidi, e soltanto con essi, comunichiamoci ogni giornosub signo Italiæ – con tutte le volontà pure e sollecite, in questa magnificenza e in questa aspettazione

Riconosci tu, o tronco d’eroe muto, riconosci tu, o giovine martire coronato d’acanto perenne, riconoscete voi la voce del capitano?

Ma i morti, in questo vespro di tutte le risurrezioni e di tutte le apparizioni, spingono alla vetta del monte un’altra nave mistica con su la prora lo Spirito di sacrifizio che è il fratello alato della Vittoria come l’Amore è il fratello della Morte.

Su quella prora stetti alzato. Su quel ponte vegliai. Da quel ponte comandai.

Non è mutata la voce, compagni. E quel che fu detto è ridetto.

«Il destino è oggi su noi sospeso come una nube che sia per balenare. Nessuna fronte si curvi e nessun cuore vacilli.

Lo Spirito di sacrifizio è in mezzo a noi, e ci guarda.

Fu il nostro condottiero silenzioso nella notte di Ronchi. È oggi il nostro condottiero.

La sua parola d’ordine è quella delle grandi religioni fondate nel sangue puro: SALVA L’ANIMA TUA.

Egli la ripete oggi a tutta la Patria.

Se saremo pronti sempre al suo appello e al suo comando, non ci potremo smarrireperdere.

E tutto il resto, o compagni invitti, noi l’abbiamo in dispregio

27 Settembre 1922.

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